CARA PROFESSORESSA
di Ljudmila Razumovskaja
regia Valerio Binasco
produzione Fondazione TeatroDue
Teatro Stabile di Parma e Reggio Emilia
2003
APPUNTI DI SCENOGRAFIA
LA SCENOGRAFIA E’ UNO SPAZIO ARCHITETTONICO
“La cosa più difficile da realizzare in scenografia è un interno. Tutti credono sia la cosa più facile, basta predisporre tre pareti, un soffitto, se serve un pavimento ed è fatta: basta variare lo stile.
Ma così non è uno spazio drammatico. E’ una stanza e basta…”
Josef Svoboda
E’ vero, progettare lo spazio scenico di Cara Professoressa è stato molto difficile.
Dare un luogo ad un racconto così realistico, serrato e precisamente storicizzato, ricchissimo di citazioni, ancorato a dei tempi strettissimi di azione, un racconto che non permette nulla di immaginario, epico, legato con rigore alla parola, tra frammenti di memorie personali, era molto rischioso.
Il procedere delle azioni nella casa e lo spostarsi degli attori continuamente da una stanza all’altra ha sempre suggerito a Valerio e a me, una sequenza più cinematografica che teatrale e il muoversi degli attori in scena, un punto di vista più da telecamera che non da palcoscenico, tantomeno all’italiana. La drammaturgia poi ci ricordava alcuni film di Aki Kaurismäki e le sue suggestioni alle quali guardiamo entrambi con ammirazione.
Ecco perché abbiamo ricreato l’ambiente come se fosse un set cinematografico, mantenendo il realismo sul set per disegnarvi un’immagine sospesa attorno. Abbiamo eliminato quinte e soffitti per mettere in evidenza dichiaratamente, dandogli valore scenografico, tutto il sistema tecnologico d’illuminazione. Luci, fari, americane a vista vogliono sospendere la visione, distaccandola dal realismo per far scattare nello spettatore un atteggiamento visivo più estraniante e meno didascalico.
E questo punto di vista ci ha convinto della necessità di una contemporaneità visiva, dando valore a quello che succedeva sempre in tutta la casa, seguendo contemporaneamente non solo i dialoghi ma silenzi e pensieri.
Cercare una possibile soluzione scenica che potesse permettere di “vedere oltre i muri, oltre i racconti degli attori”, cogliendoli nei momenti cinematografici dei loro primi piani.
Così avviene per la scena iniziale, quando i ragazzi suonano alla casa della professoressa: si svolge non vista per alcuni minuti e ci trasmette subito una tensione e un’inquietudine che ci accompagneranno per tutto lo spettacolo.
Una necessità che abbiamo sempre condiviso con Valerio è che la scena debba essere uno spazio architettonico dove contano le stesse regole dell’architettura reale, i vuoti, gli spazi, i volumi e non uno spazio formale od estetico, rappresentazione di un bozzetto. In questo senso la scena può sollecitare la drammaturgia e condizionarla a vantaggio dello spettacolo.
Il cuore della scena è diventato il corridoio dove si sviluppano i cambi di stanza e dove davvero nascono i drammi. Si ascolta e non si vede e in questo modo si può immaginare.
Abbiamo pensato e spostato la struttura di questo ambiente molte volte, sperimentando e riprovando varie soluzioni. Da un’iniziale centralità tra i due ambienti della cucina e del salotto, il corridoio è stato spostato sul retro, sviluppando un collegamento tra le porte più lungo e articolato.
Questo luogo rimane così comunque fortemente presente, dando spazio a quello che cercavamo di “non visto” da mostrare, e si uniscono visivamente cucina, salotto, bagno per un maggior controllo visivo.
La realizzazione scenica di un’idea per me, deve contribuire alla realizzazione di uno spazio drammatico, che deve funzionare, essere abitato ed essere in grado di svilupparsi nel tempo teatrale, evolvendosi anche nel corso dell’azione.
Sono convinto che lo spazio nasce insieme agli attori e a questo proposito sto cercando di approfondire e capire una difficoltà nostra, di scenografi quando entriamo facilmente nella suggestione generale di un testo, ma non abbiamo la comprensione della drammaturgia teatrale.
Si rischia così di creare spazi decorativi che non interagiscono mai veramente con gli attori.
Credo invece che bisogna sentirsi in sintonia con il luogo, gli attori , con il lavoro del regista. Per far questo cerco sempre di assistere alle prove, “sentire ” il loro lavoro.
Vorrei arrivare a creare uno spazio per gli attori sempre più essenziale in un continuo processo a “togliere” più che ad aggiungere e stratificare.
Così la decisione apparentemente incoerente di eliminare oggetti superflui e materiali di “citazione”.
Volevo allo stesso tempo una scena realista ma distaccata, pittorica ma abitabile.
Lavoro che può riuscire esclusivamente in un sistema registico così approfondito con gli attori che francamente ho trovato per ora solo nel linguaggio teatrale di Valerio Binasco. Ci accomuna una visione del racconto teatrale di sperimentazione e di esperienza continua.
E così per la luce. Con Pasquale Mari, abbiamo cercato un sistema visivo che si sostenesse a vicenda. Il suo intervento ha dato al realismo l’aspetto pittorico che avevo sempre cercato di mantenere, creando differenziazioni di profondità che sono diventate poi profondità di pensiero.
Luci che ricordano aspetti fotografici di artisti contemporanei quali Jeff Wall o Hannah Starkey che ricreano per le loro foto veri set cinematografici e ambienti perfettamente ricostruiti eppure irreali, dove la luce racconta e scava nei personaggi.
Grazie ad una luce che dipinge e svela ma non dichiara, la scena aiuta gli attori e la regia a ritornarci lo spessore dei personaggi.
Spesso nel mio lavoro è difficile vedere una corrispondenza tra l’idea iniziale e il risultato finale, viste le tante variabili che contribuiscono alla realizzazione di uno spettacolo, ma quando vedi che finalmente tutti gli strumenti suonano all’unisono ti rendi conto che l’armonia è possibile.
Antonio Panzuto